Ron racconta Ron

Un’intervista inaspettata

Per raccontare la nascita di questa video intervista a Ron, devo innanzitutto ricordare come lo incontrai, molti anni fa: su disco, intendo. La storia è abbastanza lunga, e chi ha fretta forse vorrà guardare subito il video. Ma penso che sia una bella storia… se vi va, leggetela prima – e poi tornate al video.

Ron, o forse Jackson Browne

In quel 1980, la moneta si chiamava Lira. La mia unità di misura era però diversa: misuravo il prezzo di ciò che mi stava a cuore in ore-radio. Avevo quindici anni e lavoravo a Radio Rovereto Stereo, emittente libera della mia città. Mi pagavano cinquecento lire all’ora, e un LP ne costava in media cinquemilacinquecento. Undici ore-radio equivalevano a un disco: alla fine di un mese di lavoro, mi allungavano la busta, uscivo, passavo da SavoiaLa Discoteca, si chiamava – e acquistavo. Se andava bene, ne portavo a casa tre. Era un processo alchemico: il denaro si tramutava in vinile.

Paoletta

Una mia collega dj aveva un paio d’anni più di me. Non ho mai saputo il suo cognome: era Paoletta, per tutti, ed era lei a decidere cosa acquistare per la radio di settimana in settimana. Una mattina entrò in regia con una pila di 45 giri: «Questi vanno in rotazione, solito schema.» Diedi un’occhiata distratta, e ne vidi uno intitolato “Una città per cantare”, di tale Ron. Chissà chi era: l’unico Ron che conoscevo si chiamava Wood e suonava la chitarra nei Rolling Stones. Però mi toccava, no? Lo mandai in onda forse un’ora dopo.

E se ti fermi…

In quel brano mi Ri-conobbi. Si infiltrò direttamente dalle orecchie al cuore. Non era esattamente musica pop: parlava di strade, musica suonata, insicurezze – ma anche di calore sul palco e nel cuore. Descriveva una strada che non finiva mai, perché c’erano sempre un viaggio da intraprendere e un nuovo luogo per cantare. Le città, va detto, allora erano luoghi.

Al round successivo da Savoia acquistai il disco. Lo feci ascoltare a Stefano, che suonava la chitarra acustica con me e aveva un fratello maggiore che gli passava musica sconosciuta. «La conosco! È quella di Jackson Browne!» Non si poteva aspettare: filammo da casa mia a casa sua, e “Running On Empty” finì sul piatto. Il disco aveva tre anni, ma era nuovo per me. Lo ascoltammo, tutto d’un fiato.

«Ha un gran titolo…», dissi a Stefano, «significa ‘correre sul vuoto’.»
«No… ho letto una recensione. Significa che stai guidando ma sei sul punto di restare a secco.»
Ci sentivamo così a volte, anche noi, già allora.

Al centro della musica

Il minimo che potevo fare a quel punto era restare in contatto con la musica di quel cantante di nome Ron, che mi aveva svelato il mondo di Jackson Browne, amatissimo da allora in poi. Lo seguii attraverso gli anni ’80, perché sì, scriveva e cantava canzoni pop, ma zeppe di significato. Erano soprattutto umane, storie apparentemente in miniatura, ma spesso immense. D’altronde c’erano stati dei precedenti: forse, partecipare alla composizione di Lucio Dalla che descriveva quelli sulle panchine in Piazza Grande aveva lasciato un segno. Le osmosi, le commistioni, la costruzione delle idee: nulla avviene per caso.

Tutto sembrava mescolarsi: avevo scoperto gli Stadio grazie a “Borotalco” di Carlo Verdone, ed ecco il loro sound inconfondibile manifestarsi in certi brani di Ron. Inoltre, scoprii che lui c’era quando Lucio Dalla e Francesco De Gregori portavano in giro “Banana Republic”, forse il più grande evento musicale italiano degli estremi anni ’70, prima dell’invasione di Claudio Cecchetto, Righeira e compagnia cantante. Fu quell’edonismo a piallare lentamente ma inesorabilmente la musica pop del decennio successivo.

Fra cent’anni?

Il tempo vola, e un giorno ti svegli nel 2019. Forse hai dormito storto, ma ti gira in testa un’idea balzana: hai detto a Gianni Maroccolo che passerai a trovarlo nello studio di Ron, dove sta lavorando, e d’istinto gli scrivi una mail: “Hai un contatto diretto con lui? Ci siamo incrociati quella sera a cena, abbiamo conversato, ma mi piacerebbe intervistarlo.” Pochi minuti dopo il tuo amico ti manda un indirizzo, e tu scrivi – ma in cuor tuo pensi: “Figurarsi, perché mai dovrebbe dirmi di sì? Perché dovrebbe accettare un’intervista senza un vero motivo?”

Ci eravamo effettivamente incontrati, una sera, nello stesso studio. Un saluto cordiale, due parole, nulla di più. Abbastanza per chiedere un’intervista? Non ne ero sicuro.

Ron, Garlasco 16 gennaio 2019. © 2019 Laura Piantoni

Poi, accade

In pochissimo tempo mi risponde Enrica: al momento Ron è in Sicilia per dei concerti, ma perché no? La informo che probabilmente scenderò comunque mercoledì 16 gennaio, e il giorno prima ricevo una mail: si può fare. Grande, ma non ho ancora pronte le domande – non posso certo improvvisare.

Quella notte, Laura dormì sola. Alle cinque del mattino avevo in mano un foglio con annotate diverse (troppe?) questioni che mi stavano a cuore. Sono egoista, in fondo: chiedo perché sono curioso, perché mi affascinano il perché e il percome delle cose. Scavo nel passato perché ho bisogno di un riferimento a cui sovrapporre l’Odierno. Ad esempio, nell’intervista, Ron mi racconta che il teatro dove vide Gaber per la prima volta è oggi un supermercato. Mi basta, mi avanza: dice tutto, o quasi, dell’Oggi.

Guarda chi si vede

Quando iniziamo a parlare, quel pomeriggio, è un’intervista, cordiale e serena. A un certo punto, però, qualcosa cambia senza un vero motivo: il suo raccontare diventa raccontar-si, così come il mio chiedere si fa chieder-si. Mentre sono lì inginocchiato dietro alla fotocamera, una parte del mio cervello pensa: “Quest’uomo è Ron, ha scritto ‘Anima’, ha scritto ‘Angelo’, pure ‘Attenti al lupo’, ha vinto un Festival di Sanremo, un Festivalbar, ne ha fatti non so quanti, ha collaborato con chiunque ai massimi livelli…” Leggera ansia. Ma l’altra parte ribatte: “Sta parlandomi davvero. Tutto questo è sincero, è una verità, la sua verità.”

L’ansia si scioglie in calore: è raro che esca una verità, per quanto piccola. Non importa se tutto durerà venti minuti scarsi: è un piccolo segno, umile, un ribadire che sì, ho fatto questo perché volevo farlo ed era in qualche modo necessario. Vale, chiaramente, per Ron, ma anche (in misura ben più infinitesima) per me.

Sono l’incubo degli artisti?

Spesso mi chiedo: “perché vai in giro a rompere le scatole agli artisti, Olivotto?” Lo faccio perché ho il terrore che potrebbero non essercene più, domani. Non così veri, non così disinteressati al lato materiale – nonostante il loro sia a tutti gli effetti un lavoro, anche potenzialmente redditizio. Raccolgo ciò che ancora ho intorno, nell’idealistica convinzione che dare voce alla Bellezza sia un possibile antidoto allo sfacelo. Delle opinioni m’importa poco, semmai cerco idee: se chiedo qualcosa sul significato delle canzoni oggi, spero innanzitutto che la domanda – prima ancora che la risposta – sia ancora rilevante per qualcuno.

Ron, Garlasco 16 gennaio 2019. © 2019 Laura Piantoni

Domande, risposte

Penso che le risposte ricevute da Ron siano tra le più incisive e interessanti di sempre, ma ricorderò il nostro incontro per come si è articolato, prima ancora che per i contenuti. Avremmo potuto conversare per due ore, se ne avessimo avuto il tempo, ma credo che la sintesi che emerge da sedici minuti di parole sia più che sufficiente. Si tratta di idee che possono impegnare il pensiero per giorni, mesi o anni, se lette nel modo giusto.

Offro volentieri questo video, chiedendo a chi guarda di ascoltare e riflettere su ciò che tra le parole compare. Per la disponibilità di Ron, trovo un solo aggettivo: squisita. È raro che qualcuno con una carriera simile senta ancora il desiderio e il bisogno di mettersi in discussione. Più raro ancora che qualcuno che ha vinto tutto dica che se una sua canzone non ha successo, non è così importante – purché gli lasci la sensazione di essere a suo modo unica. Quasi unico che qualcuno descriva con tanta intensa semplicità il suo “colore” interiore – e come esso si sia evoluto e perché.

Seguire l’istinto spesso conduce a scoperte che diventano piccoli tesori. Ti alzi una mattina e senza motivo ti dici: “Potrei intervistare Ron…”. Gli amici al bar ti guarderebbero strano: «Ti serve un altro caffè o andiamo dal medico?…» Fieramente, non frequento alcun bar e scelgo accuratamente gli amici. Quindi, dal momento che nessuno mi ferma, provo a fare le cose, e talvolta in qualche modo le cose accadono.

A te, Ron, toccherà raccontarci il tuo nuovo progetto, quando sarà il suo tempo. Ti sei impegnato con promessa di Lupetto: ti ringrazio anche per questo.