Intervista a Paolo Benvegnù
Questa è la trascrizione, quasi parola per parola, di una lunga conversazione telefonica con Paolo Benvegnù avvenuta il 19 dicembre 2023. Nel trascriverla mi sono chiesto se non fosse il caso di rimuovere i passaggi più personali. Mi sono risposto di no: non sarebbe onesto, anche perché le parole di Paolo si possono leggere su diversi livelli. Forse infiniti livelli: io stesso talvolta mi ci perdo come in un abisso.
La scusa per parlarci ha un titolo e una data di pubblicazione, ma la ragione vera si spinge un po’ oltre. Più che i contenuti specifici dell’album, ciò che mi interessa è la posizione dell’anima di questo artista rispetto alle stelle. Il tentativo di triangolazione passa per domande delle quali – ne sono certo – egli comprende il codice; e per risposte delle quali – lui ne è certo – io comprendo la natura.
La mia recensione del nuovo album “È inutile parlare d’amore” (Woodworm) si trova qui, e questo è il link di pre-ordine.
“È inutile parlare d’amore” è il tuo nono album in venti anni di carriera solista, al netto degli EP e del live “Dissolution”. Esce a quattro anni dall’ultimo album di inediti, perché nel frattempo hai pubblicato un disco in cui rivisiti i tuoi brani e uno di cover. In questo lavoro trovo molta densità, e la mia sensazione è che tu abbia tirato fuori quattro anni di pensieri inespressi. Mi sbaglio?
Non sbagli affatto, e se ricordi ne parlammo nel 2021, in Molise. Direi che sto un po’ conquistandomi, perché ho iniziato ad avere meno paura della vita, e questo ha aperto un canale verso la fantasia, meno immaginifico e per certi versi più crudo. In tutta onestà, lo aspettavo da sempre e l’ho vissuto come uno spalancamento. I brani stavolta sono arrivati uno dopo l’altro, in maniera naturale. Non ho dovuto forzare niente, e questa è una cosa abbastanza nuova. E certo, la mia soggettiva è piena di furia: non perché sia ansioso di farmi sentire, ma perché sono furibondo. Lo sono nel bene e nel male, come ai tempi de “Le labbra”. Penso di avere fatto un disco serio, dopo “Hermann” e dopo buona parte di “Earth Hotel”. C’è stato un periodo di buio, poi, che ebbe inizio nel 2014.
Nel titolo, leggo almeno due significati: può implicare che non valga la pena di parlare d’amore, oppure che l’amore non vada descritto ma vissuto. Quale dei due è più vicino a ciò che intendi dire?
Il secondo. Se è inutile parlare d’amore, allora è inutile anche parlare di vita, di pensiero, di creazione… Se questo è il caso, allora è tutto inutile – e pregherei di dirmelo, perché a quel punto vorrei rendere la mia vita un tesoro di utilità, parlando d’amore, pensandolo. Penso che l’amore sia l’unica libertà che ci rimane, quantomeno lo sarà nello scenario futuro: tuo figlio, mia figlia vivranno in un mondo in cui l’unica possibilità per non essere comprati sarà amare in maniera folle, come tu hai fatto e come io ho fatto. In questo c’è una continuità tra noi e i nostri figli.
Ho da sempre la sensazione che i tuoi testi descrivano esperienze personali, magari trasfigurate e filtrate, che però aprono a questioni molto più universali e profonde. È un’operazione che fai coscientemente o semplicemente escono così?
L’ho fatto coscientemente in passato. Prima accennavo al buio: l’ho fatto coscientemente da metà in poi di “Earth Hotel”, perché avevo finito il carburante emotivo, e fino a “Dell’odio dell’innocenza” compreso. Lì mi sono fermato e ho fatto i calcoli, e naturalmente non tornavano. In “Dell’odio dell’innocenza” ci sono un paio di episodi in cui questo sgocciolare è stato naturale. In questo caso invece è stato tutto un magma, come se a un certo punto avessi maturato una serie di esperienze che hanno fatto scattare un meccanismo di sguardo diverso. In questo credo che conti anche l’età: ad esempio, non credo più alla verità. La verità per me è una somma di tante verità, anche quando arriva al binario morto dello 0 e dell’1, del digitale per intenderci. Anche quando una cosa è viva o una cosa è morta si vede chiaramente che non è quella la verità ultima: c’è dell’altro. Anche la realtà che viviamo è qualcosa che noi ci forziamo a vedere come realtà. Per questo mi viene da pensare che la vita degli uomini sia fatta anche da realtà adiacenti e che il semplice pensiero di un’altra vita non sia così dissimile dalla vita che si vive. Noi viviamo percependo il tempo come se fosse una grande clessidra, ma credo che il tempo si possa distorcere, e che all’interno di questa distorsione ci siano delle pieghe che non vediamo quasi mai. Quando riusciamo a entrarci, tutto è altro, tutto diventa diverso, tutto è altrove e noi assumiamo un’altra forma. Per questo l’amore tra due esseri umani non dipende neanche dalla forma, ma dal sentire.
Su questo ti lancio un amo sul quale potrai scrivere il prossimo album, se vorrai: l’equazione di Wheeler-DeWitt, che cerca di unificare la meccanica quantistica e la teoria della relatività generale, non contiene il tempo.
Esatto. È una cosa che ho letto anch’io, e in tutta franchezza mi ha suggerito come il sentire mi abbia fatto arrivare a una considerazione di solito riservata a esseri umani che vedono altro e studiano tanto. Da piccolo studioso delle scuole elementari mi sono stupito di essere arrivato con mezzi diversi allo stesso risultato.
Nelle note riservate alla stampa ho trovato una vera e propria sceneggiatura cinematografica, anche se, come scrivi, non verrà mai realizzata. In mezzo ci sono considerazioni molto dense di significati. Domanda alla Marzullo: quando scrivi, pensi per immagini o sono le cose che scrivi a suscitare le immagini che sono confluite in questa sceneggiatura?
Rispondo con qualcosa che mi hai insegnato tu. Ricordi, quando lavorammo insieme con gli Scisma, la mia frustrazione davanti alla pochezza di quello che facevamo? Tu mi dicevi una cosa, e parto da un triangolo anche se la figura geometrica è in realtà ben più complessa e irregolare: quando sei in ricerca e stimoli le cose attraverso la tua ricerca, accade che armonia, melodia e suono formano un triangolo che deve creare materia. Questo mi insegnasti all’epoca, ma allora non ero in grado di capirlo. È accaduto ora in ogni pezzo di questo disco, compreso “Libero”, che è stato scritto da Luca Baldini. Quando scriviamo, lavoriamo sempre sul nulla, sull’impalpabile e sull’invisibile, e ogni volta ho la necessità di sentire che questa triade diventa materia. È un discorso legato a un’idea alchimistica, se vuoi. Anni fa non lo capivo, ma ora succede perché la ricerca è stata talmente appassionata e densa che ha finito per diventare materia, anche solo nel momento della scrittura. Poi si trasforma in un altro tipo di materia nei concerti, che sono importanti non tanto per rappresentare, quanto per ritrovare quella forma primigenia in uno spazio e un tempo diversi.
Ci sarebbe molto da elaborare su questo argomento, ma servirebbe molto tempo… Ti chiedo invece: nell’album ci sono due collaborazioni con Brunori Sas e Neri Marcorè. Come sono nate e cosa ti accomuna a questi due artisti?
Con Dario ci sono trascorsi personali di lunga data. Anni fa passammo una notte intera a parlare del codice etico della musica, e fu uno scambio molto bello. Poi ci siamo ritrovati più volte, e a me sarebbe piaciuto che lui trasformasse la mia scrittura in qualcosa di diverso, così gli ho fatto ascoltare un po’ di brani. Tra questi c’era “Il pescatore di perle”, ma non riusciva a entrarci, per attitudine sua. Quando ho scritto “Oceano”, uno degli ultimi brani composti, si è invece ritrovato all’interno di quella narrazione ed è stato generoso… la generosità che tu avesti ai tempi con gli Scisma l’ha avuta lui con noi: ha visto dei naufraghi e ha detto “diamogli una mano”. Ha trovato il tempo, una notte, per cantare il brano e di questo gli sono molto grato, perché come sai non è da tutti. Lo stesso ha fatto Neri Marcorè, ma lì c’è anche lo zampino di Luca Baldini, che ha organizzato un suo spettacolo teatrale. Quando Neri ha saputo che Luca suonava con me ha chiesto di sentire qualcosa e si è imbattuto nel brano “27/12”. Mi è piaciuto che l’abbia cantato come cantavo io negli anni in cui io e te ci siamo incontrati… con la stessa ingenuità, e intendo senza malizia. È stato come incontrare di nuovo una parte di me. Ha cantato quelle parole in maniera diversa da me, perché mentre le stavo scrivendo le stavo già elaborando; lui invece ha avuto il fantastico vantaggio del pre-pensiero, e ha intravisto la scrittura semplice di quel pezzo, che in realtà è piuttosto complesso. Anche lui si è voltato indietro e ci ha teso una mano. Alla fine forse nella relazione con l’alterità ciò che cerchiamo è un po’ di conforto, e lui ce ne ha dato moltissimo.
Una cosa che mi sembra accomunare i due brani, pure molto diversi, è che sento due esecuzioni molto fresche, e questo racconto me lo conferma.
Sì, decisamente. La cosa mi ha stupito: in tutta franchezza… quando canto i provini, i brani brillano in maniera diversa. Quando arrivo all’esecuzione definitiva sono già troppo disincantato, e mi rendo conto che questo sia un errore, però non so come rientrare in quell’incanto iniziale, se non forse ubriacandomi, ma poi finirei all’ospedale! Dario e Neri invece hanno trovato la chiave di un’esecuzione fresca. Sono molto d’accordo con te.
Se si guarda il lavoro nel suo complesso, più che brano per brano, il suono si evolve. All’inizio ho avuto la sensazione che si passasse da un’atmosfera più acustica a una più elettrica, ma sbagliavo. Ho capito poi che la musica diventa progressivamente più dissonante e per certi versi più difficile da ascoltare: è una sfida all’attenzione limitata di chi ascolta, che è uno dei problemi di oggi?
Magari fosse così… no, il motivo è che parto dalla presentazione del tempo che stiamo vivendo e dalla presentazione dei personaggi del romanzo che ho nella testa. “Tecnica e simbolica” è un brano che rappresenta in tesi e antitesi il tempo attuale. Poi, i personaggi: dapprima l’intuito che nella relazione tutto diventi immenso, infinito, e che la realtà sia intangibile rispetto a quell’infinito; poi arrivano “Il pescatore di perle” e “Marlene Dietrich”. Perché si va sempre di più verso la dissonanza? Sai… nel momento in cui la conoscenza dell’alterità diventa più marcata, le geometrie saltano. Gli antichi taoisti cinesi direbbero che ogni forma, in quanto forma, è deludente rispetto all’energia che non ha forma. Alla fine tutto si stempera in una piccola sinfonia fatta con strumenti finti ma improvvisata, e va via così. Su quel brano mi sono davvero immaginato l’umanità che si tiene per mano e si capisce, ma penso che sia abbastanza impossibile… (ride).
Mi sembra di leggere due temi dominanti, nel disco: uno è il femminile, e in subordine la polarità tra maschile e femminile; l’altro è la schiavitù dalla tecnologia e dai meccanismi che genera. Ti chiedo se proponi il modello del femminile come via di fuga dall’orrendo vicolo cieco in cui ci siamo cacciati, anche a livello sociale.
Certo che sì. Un po’ come l’amore, inteso come lavorare sull’irrazionale, spendersi nell’irrazionale proprio e dell’altro. Prima dicevo che l’amore sarà una delle poche forme di libertà possibile più avanti, e anche ora per certi versi. Così il creare carne e sangue non servirà più a perpetuare la specie, ma a diventare finalmente consci della creazione in senso reale. Credo che quello che abbiamo fatto negli ultimi ventimila anni o giù di lì è stato costruire utensili per avere più tempo a disposizione… ma guadagniamo un tempo che non usiamo mai. Allora forse il senso è nell’attesa, nel fatto di essere rapportati all’universo, in questo caso alla luna per essere pronti a generare. Il mondo maschile ha una paura fottuta di questa creazione, perché è miracolosa. Però non puoi prenderla e sacralizzarla, come è stato fatto con la madonna, perché poi hai bisogno che la madonna pianga. Noi abbiamo davvero paura: per me tecnologia e genere maschile sono aspetti diversi del medesimo protrarsi per avamposti, senza considerare la terra che rimane dietro, e io spero tanto che le donne si vendichino e prendano il potere di questo mondo. Se dovessi essere la prima vittima, per rendere visibile questa liberazione, mi offrirei volontario. Sinceramente, semplicemente: mi offro volontario.
E qui cade il silenzio…
Ti immagini la Ferragni con un fucile? La cosa potrebbe essere terribile…
Eh, su questo potremmo fare un distinguo! Io la sto immaginando… “pensati pandoro”, insomma. Torniamo seri… Su “Tecnica e simbolica” mi hai già risposto: è una rappresentazione perfetta di ciò che siamo diventati in questo momento storico, che è terribile, ma ti chiedo una cosa. Nel testo suggerisci di osservare le stelle, e la parola “stelle” ricorre molto nelle tue canzoni. Quando scrivi sei spinto dal de-siderio, in senso etimologico, ovvero dalla lontananza dalle stelle?
Sì, sì, come sempre sai tutto di me, mi conosci più di me. Ho negato per tutta la vita il desiderio, e se parlo di stelle è perché guardo il cielo. Ne sono ossessionato, perché ho davvero negato tutto riguardo al mio desiderio, e questo fa parte della generosità di cui uno è intriso… ma se la generosità diventa autolesionismo e autosabotaggio è veramente terribile.
In “Marlene Dietrich” mi ha incuriosito che citi Tamara De Lempicka come personaggio femminile. È una pittrice polacca importante, ma non credo che la conoscano in molti. Che significato simbolico ha per te?
Rappresenta la volontà del femminile di entrare in competizione per scardinare ogni tipo di egemonia. De Lempicka non è diversa da Marinetti, per certi versi. E poi stiamo parlando di una personalità di primo piano nel primo mondo, all’epoca: se fosse stata povera non avrebbe potuto realizzare quei dipinti ed entrare nei salotti in cui era possibile sforzarsi di pensare a una maniera non matrilineare di prendere il controllo del mondo. C’è una forma di liberazione e confronto tra maschile e femminile: c’è nelle case e nelle stanze in cui viviamo, ma non c’è mai dal punto di vista prettamente sociale. Parlo di De Lempicka e Marlene Dietrich perché sono casi evidenti e manifesti di non-seduttività. Donne molto dure, eppure grazie alla loro disciplina hanno davvero volato oltre l’immaginario che il mondo stesso gli ha appiccicato addosso, ma anche oltre la loro epoca. Tra l’altro mi viene da pensare che in quell’epoca, gli anni ’30 del Novecento, ci fosse molta più libertà di adesso. Lo noti in ogni cosa, anche nella letteratura. Non fu una spinta data dal futurismo, come i futuristi pensavano, o dall’idea della quarta dimensione del cubismo di Picasso: a me viene da pensare più a Boccioni, o a Depero, a come percepivano e guidavano il movimento, non soltanto nell’arte figurativa. È come se oggi avessimo dimenticato tutte le conquiste dell’epoca, e non solo dal punto di vista artistico: mi riferisco a tutte le cose del mondo. Per un operaio, ad esempio, sarebbe importante recuperare quegli anni, perché stiamo rientrando nella schiavitù della prima rivoluzione industriale, con una differenza: una volta il pane lo sentivi sotto i denti e il carbone lo dovevi alzare con le braccia, ora è tutto impalpabile e per questo è ancora più frustrante.
Una domanda sul singolo, “Canzoni brutte”, che è una riflessione sullo stato dell’arte, oggi, che è sempre più assimilabile all’intrattenimento. Mi sembra un fenomeno così dilagante che non vale neanche la pena di discuterne, ma ti chiedo: come se ne esce? Perché bisognerà uscirne prima o poi.
Mah, se ne esce non scrivendo più canzoni come “Canzoni brutte”.
Risposta lapidaria…
In realtà quel brano mi serviva per parlare del tradimento di uno dei due protagonisti del romanzo che ho in testa. Siccome si tratta di un tradimento, abdico alla purezza, ma la recupero subito dopo perché non è possibile essere diversi da ciò che si sente, e l’inautenticità è la cosa più terribile che possa capitare a un essere umano. Visto che sono stato inautentico per tantissimi anni, mi serviva per ricordarmelo. Mettiamola così. (Ride)
Ultima domanda. “L’origine del mondo” è una canzone molto viscerale, ma utilizza termini che soprattutto in questi tempi aprono scenari inquietanti, come quello della violenza, soprattutto se affidati a una voce maschile. Qual è la tua posizione su questo tema estremamente delicato?
A mio parere, se non partiamo dall’assioma che siamo tutti potenzialmente mostri e tutti potenzialmente sublimi, non andremo da nessuna parte. Un esempio: l’industrializzazione ci ha portati a non vedere più morire gli animali domestici, e quando succede il trauma è incredibile… D’altronde, se non vedi mai la morte e il dolore, se prendi la follia e la releghi perché vuoi vivere in un mondo edulcorato, come fai a pensarti vivo? Intendo che in me coesistono il criminale più efferato e l’infante più innocente. Il brano parla di amore in questo senso. Quando si parla di violenza si parla di fusione, di comprensione fisica e spirituale. Il fatto di volere il mio sangue uguale al tuo, o il tuo sangue uguale al mio, è molto legato all’istante iniziale della vita. Se perdiamo il primo scintillio della vita, che è fatto anche di violenza, di miracolo, di prodigio, dove andiamo? Dove andiamo se non troviamo mai una questione di vita o di morte davanti a noi? Siamo molto frustrati, perché ogni giorno possiamo sbagliare ogni cosa che facciamo, e non succede nulla. La frustrazione deriva dal fatto che non abbiamo mai un nodo gordiano da superare. Per questo poi siamo aggressivi in modo così inutile e ignobile verso gli altri. Sicuramente “L’origine del mondo” è una canzone che può essere recepita in vari modi, ma per me è legata al sentirsi e all’accettare che possiamo essere anche i peggiori criminali… scegliendo naturalmente di non esserlo: non è certo l’apologia della violenza.