Vola il corvo – Lorenzo Del Pero e io

"Vola il corvo" • di Giada Cardillo

Vola il corvo

A differenza del solito, stavolta scriverò di un brano in cui ci sono anch’io. Non un brano mio in senso stretto, ma anche mio. Lo ha pubblicato VRec Music Label il 22 aprile, solo due giorni fa. S’intitola “Vola il corvo”, ed esce a nome di Lorenzo Del Pero e Marco Olivotto. Come sempre, a monte delle canzoni c’è una storia. Se vi va di entrarci, segue un tuffo là dove non si tocca. (Ed è pieno di squali, si sa.)

Crollistoria di una canzone

8 marzo 2020, domenica. La notte prima erano filtrate notizie relative alla creazione di nuove zone rosse in Italia, a causa dell’epidemia di Coronavirus. Quel giorno sono in viaggio per andare a prendere mio figlio in Friuli: compie dodici anni. La festa, cancellata. Si sta in casa. Zone rosse – ne attraverso tre: le province di Padova, Venezia e Treviso, senza sapere cosa accadrà. Non accade nulla. In serata, rientriamo.

Proprio in serata, la questione si fa seria: non più zone rosse, ma lockdown generalizzato. In pratica, arresti domiciliari, con pochissime deroghe. La vita cambia, forse per sempre – perché ne usciremo, ma non sappiamo come saremo. È chiaro da subito a chiunque abbia occhi per vedere che non potrà durare due settimane.

12 marzo 2020, giovedì. Un evento ben preciso e anomalo, perché ogni cosa è stata anomala nell’ultimo periodo. Mi sale un presagio che cerco di allontanare, ma non mi abbandona.

28 marzo 2020, sabato. Al mattino ricevo una comunicazione devastante, spietata. “Crudele” è il termine giusto. Sono bloccato in casa con un ragazzo di dodici anni, non mi posso spostare, non posso nulla mentre una parte essenziale del mio mondo crolla senza appello. L’istinto a volte fa cose strane: mando un messaggio a un amico improbabile, che subito mi chiama. Il suo nome è Lorenzo Del Pero. Parliamo un po’, e a un certo punto mi dice – vorrei inviarti un brano che sto scrivendo, non è finito. Certo, rispondo.

Un album

Conosco il suo ultimo album. Un titolo lungo che la dice lunga: “Dell’amore animale, dell’amore dell’uomo, dell’amore di un Dio”. Di quelle canzoni, che pure mi piacciono, ne amo una in particolare. S’intitola “A Silvia” e l’ho ascoltata proprio quella mattina. Nei giorni precedenti, senza poter prevedere nulla di ciò che sarebbe poi accaduto, eravamo arrivati a dirci che un giorno sarebbe stato bello vederci. “Metà marzo, che ne dici? Facciamo tre accordi assieme?” Metà marzo: ciao, addio. Murati vivi in casa, ognuno per sé. Perché il punto è questo: io e lui non ci siamo mai incontrati. Il nostro rapporto è nato da una mail in cui gli scrissi – bell’album, amico, è tantissima roba. Da lì, una telefonata cauta e cordiale. Messaggi incrociati. Una piccola scintilla che ci ha portati a confrontarci e scoprire radici comuni, sia pure diverse.

Il potere di WhatsApp

Il brano arriva via WhatsApp un minuto prima di mezzogiorno. Chitarra e voce, in casa con un cellulare – ché altro non c’è. Lorenzo mi dice che è forse a metà, manca un sacco di testo. Sì, ma dura già quattro minuti… però, cribbio, regge. No, anzi: è bello. L’istinto: scarico mp3, lo inserisco in Pro Tools e inizio a suonarci sopra, prima quasi a caso, poi scavando pian piano. A un certo punto, su una frase di archi che mi è uscita, mi viene in mente di aggiungere la mia voce al ritornello.

So essere autarchico, quindi faccio l’impensabile: cambio le parole. In quel momento devo cantare le mie: sono molto simili a quelle originali, ma non posso raccontarmi a fondo con le parole di un altro. Non è così che funziona l’autoterapia della musica. E lì restano: un ritornello con due testi diversi sovrapposti.

Poco dopo le 17 rispedisco mp3, sempre su WhatsApp. “È bellissimo”, mi scrive Lorenzo dopo pochi minuti. OK, ci siamo finiti dentro, come in un virus. “Allora la finisco…”

Del tormento dell’uomo

Nei due giorni successivi mi sembrava di percepire il tormento della scrittura da qui. Arriva anche un video di pochi secondi in cui si vede un taccuino zeppo di frasi, cancellature, ripensamenti. Pagine su pagine di parto, in senso stretto. “Marco, ci sono, eh…” E poi la data fatidica: 1 aprile. Che scherzo: nove minuti di brano. Ha senso un brano di nove minuti? Perché ormai abbiamo deciso, ne faremo un singolo. Non abbiamo una nota pronta, ma sappiamo che dovrà uscire. Un’arroganza senza precedenti, lo so. Ma se si deve, si deve.

Chiamo David Bonato di VRec Music Label, che ha pubblicato l’album di Lorenzo, e gli dico – senti, io e quell’altro abbiamo deciso di. Lo faresti? Risponde sì, senza sapere nulla di ciò che uscirà. Forse in quel momento ha in mano la demo di Lorenzo, voce e chitarra, ma niente di paragonabile al risultato finale. Lo ringrazio pubblicamente di cuore: noi siamo matti andati, ma anche lui non scherza – perlomeno in questo caso.

Il giorno e la notte

Di giorno lavori, ti guardi intorno, esci sul balcone. Cucini, riposi, guardi un po’ di TV. Ti fai domande, una diffidente spesa, guardi i numeri dei contagi che mai calano. La notte no, in qualche modo tutto si acquieta oltre il normale, che già è assai quieto. Fa un po’ paura. Lì escono le note e le voci.

Ho registrato quasi tutte le mie parti assai dopo la mezzanotte, un figlio addormentato al piano di sotto, sperando di non svegliarlo. Una notte clausura, come dice il testo. Ma è una sfida: fermala, la voce. Puoi fermare tutto, ma quella non puoi bloccarla. Le alternative sono tenersi tutto dentro, in quieta disperazione, o lasciare uscire quello che preme in gola. Anche sussurrando, anche in un soffio. Stai scrivendo una lettera fatta di pensieri, immagini, vuoti interiori che il virus ha creato, l’uomo ha ingoiato e il tempo sta erodendo. Quindi ora, oppure ora.

Perché – siamo onesti? – #andràtuttobene non ci sta proprio. Non sta andando affatto bene, e non tornera mai come prima. Cosa fate, festanti sui balconi? “This will never come again”: lo canto io stesso nel rifacimento di un brano di Peter Hammill che pubblico una sera su Facebook per necessità psicologica. “Questo non tornerà mai più.” Quindi, senza infierire, perché non ci diciamo in faccia che questa cosa fa male? Dove sta il problema a dirci la verità, denudarci, esporci? Poi ognuno la vivrà a modo suo: non ho, non abbiamo la pretesa di suggerire parole che forse neppure esistono, in grado di esprimere il disagio che ci circonda. Ma almeno dire che lo percepiamo, quello sì. E poi che ognuno ne faccia ciò che vuole.

“Perché ridono?”

La produzione procede per gradi, a volte a scatti – ma il risultato è omogeneo. A un certo punto, mentre sto rinforzando la chitarra acustica registrata da Lorenzo (sempre sul cellulare, rigorosamente lo-fi), mi esce d’istinto una cellula ritmica che sembra una danza. Popolare, povera, lurida. Mi ci attacco, a cozza. Ho trovato la quadra. Mi viene in mente una vecchissima foto vista molti anni fa: gli abitanti di un paese in strada, in mezzo a un allagamento che gli lambisce i glutei. E ridono, e sorridono. “Perché ridevano?”, chiedo. “Perché non avevano nulla da perdere”, mi rispondono.

Ecco, anch’io, ora, anche noi. O meglio – le cose da perdere sono tante, ma tutte immateriali. Per miracolo, di colpo, il denaro non ha più alcun valore, perché se finisce finirà per tutti. Il tempo sembra essersi fermato. La parola “lavoro” è mutata come un RNA ballerino. Il valore più grande è diventato: impastare una torta, per la propria sanità mentale. Disinfettare la mascherina. Lavarsi le mani. Giocare e scherzare pur con migliaia di morti che cadono come mosche, per non spaventare il ragazzo che vive in casa. Costruire una normalità diversa, io e il piccolo percussionista rimasto bloccato causa lockdown, e per fortuna mai svegliatosi alle mie sovrincisioni in prossimità dell’alba.

Un turnista impensato

“Simone, avrei bisogno di una percussione sul brano che sto facendo, quello di Lorenzo.”
“Certo, papi. Ma cosa suono…?”
“Non abbiamo niente. Forse una scatola di cartone, un cembalo, le mani.”
“Può andare.”

La scatola di cartone è insuonabile, dice. “Aspetta, cerco.” E così il bottiglione vuoto del distributore dell’acqua fuori dallo studio diventa una cassa sorda, da funerale, che equalizziamo a morte – come le si addice. Il cembalo nella fantasia è un rullante. Le mani sono le mani. Creiamo un pattern, anzi due, che si sovappongono e generano un finale in cui la danza è davvero danza. Ma attenzione: “festa stanotte di misere tribù”, per dirla col poeta. Miseri siamo diventati, di colpo? Neanche per idea: lo eravamo anche prima, ma giù di forza a negare, a raccontarcela. Per questo nel finale danziamo un flamenco sbilenco e sofferente, di tristezza indicibile, ma liberatorio. Un sorriso nel pianto, con un tiro, un groove, un “fottiti, destino” tatuato dentro.

Tutto questo in un brano che si chiede quanto durerà la sudditanza, se le mura che ora ci avvolgono diventeranno cemento armato, se mai potremo dare ai morti una degna sepoltura, ché anche quella è negata. Non è esattamente un bel momento per morire. Quindi che si fa? Per reazione, si vive. In culo a tutto.

Diritto di veto: inutile

Ci eravamo posti un diritto di veto incrociato, io e Lorenzo. Precauzionale: il DNA dell’uomo trentino, con le irrinunciabili tracce di rigidità teutonica, e quello dell’uomo pistoiese, con i geni dell’anarchia scritti nel profondo. Miscela pericolosissima, sulla carta. E invece: mai produzione è andata più liscia. Nessun veto è stato necessario. Andavamo controvento nella stessa direzione. Al massimo passavano suggerimenti, idee. Non è mai facile per un artista mettere un proprio brano, prezioso, nelle mani di un altro e lasciarlo fare. Io poi sono un desperado, in quei casi: provo di tutto. Disfo, smonto, non guardo in faccia nessuno. Mi importa solo della canzone. Se la canzone però coincide con l’uomo che l’ha scritta, per proprietà transitiva mi importa anche di lui.

Regole, due

Solo due cose avevo chiare in mente. La prima: niente elettronica inutile, niente batterie finte. Che tutto suoni il più naturale possibile, e via. Chitarre elettriche, proibite: il pensiero di rischiare un crescendo finto-metallico sul finale era orribile, e non era ciò che dovevamo dire. “Tienila giù, fai emergere la tensione, deve logorare, ma in modo che uno alla fine si dica – ancora!” Questo mi ripetevo.

La seconda: per ciascuna parte una ripresa unica, da inizio a fine. Se sbagli riparti dall’inizio. O suoni, o suoni, poche fighettate – mi dicevo. Lorenzo mi ha regalato nove minuti perfetti, incisi nel vuoto e con un metronomo in cuffia, senza niente. Quindi devo farlo anche io. Chiedete al percussionista e alle sue mani: alla fine della sessione erano roventi, perché era tutto un – no, rifacciamo, no, rifacciamo, porta pazienza. Suonare live con se stessi registrati. Inebriante.

Mix chiuso il 10 aprile, al terzo tentativo. Buono già il primo, due ritocchi microscopici suggeriti da Lorenzo, che ha sgamato un paio di cose sfuggitemi per appiattimento di prospettiva. E a quel punto che si fa? Ognuno si sceglie tre o quattro persone che diventano i destinatari di una domanda: “Che ne pensate?”

Vola il corvo

Reazioni sconcertate, sempre in positivo. Alcune parole che terrò per me. Qualcuno che usa il termine “regalo”. Bene: si percepisce che siamo sinceri, il messaggio arriva. Soprattutto, passa in chiaro il nostro no al solito #andràtuttobene. Come sempre in questi casi, arriva il dono dal nulla: un’illustratrice in pochissimo tempo produce una copertina, proprio mentre vaghiamo nel vuoto alla ricerca di un’immagine che possa rappresentare il testo. Sono nove minuti di stanze interiori (di-stanze, si capisce?), al freddo, al buio. Soli. Quando guardi in su scorgi l’ombra del corvo che ti passa sopra, e sai che sta volando per te: “a ghermir la carcassa / dei suoi sentimenti”. (Una delle voci canta “tuoi”, e una consonante è pur sempre una consonante.) Hai anche l’orribile sensazione che quel corvo sia molto antropomorfo. Assomiglia sinistramente a qualcosa che vedi ogni mattina nello specchio del tuo bagno.

Giada Cardillo non ha realizzato una copertina, ma quattro. Buona la prima: le altre erano più elaborate – non serviva. Quel corvo/uomo con la maschera dei medici della peste, l’occhio rigorosamente nero, senza luce, che non ti guarda ma ti vede. Una sola immagine che racconta tutto il testo. Approvata.

Instant single

Così abbiamo un singolo. Il 22 aprile VRec lo ha pubblicato a tempo di record. La sera prima abbiamo fatto anche una diretta su Facebook per presentarlo, non potendo fare null’altro. Una prova era andata perfettamente liscia. Nella diretta vera non ha funzionato nulla, la tecnologia che ci aveva portati fin lì (la rete, il cellulare, la connessione) si era evidentemente imboscata a strusciarsi addosso al corvo, maledetto lui. Pensiamo che la bestia ce l’abbia un attimo con noi, perché non ci siamo andati leggeri. Peggio per lui: anche questo fa parte della verità dell’incontro assurdo e imprevedibile di due musicisti che riescono chissà come a mettere in piedi una cosa che sulla carta aveva ogni probabilità di franare sotto il proprio peso. Qualcuno ha perfino detto che il brano suona benissimo. Concordo, a me piace. Ma alla base c’è un cellulare, in mono, e c’è WhatsApp. Non è il cosa, insomma, ma il come a fare la differenza.

“Shhh. Listen.”

Insomma, se vorrete seguire il volo del corvo, noi ne saremo contenti. Io in particolare: era il 1994 quando pubblicai “Samsara”, ultimo capitolo dei miei TNR. Nel frattempo ne ho fatte di ogni genere: ho registrato e prodotto cori alpini, musicisti classici, rock band, cantautori, jazzisti. Mi sono passati vicino Stefano Bollani, Ezio Bosso, David Jackson, Paddy Milner, un sacco di nomi fantastici. Di mio niente, salvo una sonorizzazione anomala nel 2005. Ci volevano un virus e Lorenzo Del Pero per farmi tornare a mettere il mio nome su una copertina. Di questo posso solo ringraziare lui e la disgrazia che ci è capitata in testa. No virus, no corvo: di questo sono assolutamente certo. Se non ci fosse stato lo stop completo di tutto, sarei stato impegnato a correre dietro alle ombre, cercando di tenerle unite ai corpi che le generavano.

E invece no. Lasciamo andare tutto, in questa slavina dilagante. Almeno avremo suonato, almeno avremo cantato. Ma attenti: se pensate che #andràtuttobene, il consiglio è di stare a distanza da questo link. Se invece credete che #tuttobenestocazzo, siete i benvenuti: alla fine, oltre che per noi stessi, l’abbiamo fatto proprio per voi. Nella nostra visione, per quel che vale, era l’unico modo perché almeno qualcosa tornasse ad andare bene.

Now, you decide.