Giorgio Canali & Rossofuoco: una “prima” a Bologna

Il conto alla rovescia è iniziato l’ultima volta che siamo andati a sentire Giorgio Canali & Rossofuoco: serata torrida d’estate della Bassa Bergamasca, Osio Sopra. Era luglio: il nuovo CD era già nell’aria ma ancora non si sapeva nulla della data ufficiale di pubblicazione. Alla fine il 5 ottobre è arrivato e al Locomotiv Club di Bologna “Undici canzoni di merda con la pioggia dentro” viene finalmente presentato al pubblico, sette anni dopo l’uscita di “Rojo”.

Partiamo da casa nel primo pomeriggio – avremo preso tutto? Macchina fotografica, smartphone, caricabatterie, appunti vari con domande, un cambio per la notte fuori. Tutto pronto, sì, ci siamo. Sopravviviamo al traffico della Brennero-Modena e in un paio d’ore siamo già nel caos del capoluogo emiliano.

Abbiamo un’intervista da fare, non c’è moltissimo tempo. Tra chiacchiere, risate, qualche bicchiere di vino e una fetta di frittata riusciamo a prelevare Giorgio e tutti i tre Rossofuoco.

Stasera grande evento, c’è anche Steve Dal Col, e io sono emozionata come una bambina la notte di Santa Lucia, perché sul palco, lui, non l’ho mai visto prima.

Ci fumiamo le ultime sigarette in camerino – tiri rapidi e gole secche – mentre il locale si riempie, e siamo tutti un po’ nervosi: chi fa l’ultimo soundcheck, chi cammina avanti e indietro, chi controlla le batterie della macchina fotografica. Sbircio veloce la scaletta scritta a mano e appesa sull’ampli di Steve – click! Foto strategica con lo smartphone. Tempo di vedere Giorgio infilarsi veloce una camicia viola (ma non portava sfiga?) poi via, sul palco, si comincia.

Un temporale in sottofondo – questo concerto ha la pioggia dentro – mentre i ragazzi prendono posto, in una sala incredibilmente silenziosa e attenta.

Il ritmo lento di Luci fredde del nord dà il via al concerto, ma è con Piove, finalmente piove che iniziano ad aumentare i giri: un Canali incazzato e gioioso come un bambino – welcome back, Giorgio – che approfitta di un acquazzone per uscire in strada, infradiciarsi le scarpe nuove e cantarle a tutti, nessuno escluso.

Piove sui treni ripieni di alieni e brianza che, beata ignoranza, marciano sulla città.

Un saluto di benvenuto al pubblico – “Come state? Chi siete?” – prima di Morire di noia, mentre Luca Martelli si sfila la maglietta. Marco Greco sta apparentemente impassibile a fianco del suo amplificatore, nascosto dalla massa di capelli rossi che gli è valsa il soprannome “Testadifuoco”. OK, adesso si vola davvero.

Arriva Estaate, “una canzone speciale dedicata a una persona speciale”. Io sono in mezzo alla sala, guardo alle mie spalle e beh. Dolce e innamorato ma sempre lucido e mai retorico, Giorgio infila uno dopo l’altro tutti i topoi della sua poetica rock, dalla pioggia, alle nuvole, alla “nebbia per nasconderci la rabbia e qualche verità” e dipinge con quella sua grazia graffiante e dolorosa un amore padano col dito medio alzato. E se anche Undici sembra prendere il via da un pretesto d’amore, il finale si rivela una scarica di dinamite in perfetto stile canaliano, con l’ardore di un ventenne e la precisione chirurgica di chi, di anni, ormai, ne ha sessanta ma non li dimostra.

Gente con 4G e un’ignoranza da Medioevo, John Lennon fatto saltare in aria dalle Brigate Rosse a Sarajevo.

Siamo a metà, circa, a metà scaletta: guardo veloce il mio smartphone – ma a che punto siamo? Cerco Marco con lo sguardo ma c’è troppa luce, troppo caos, troppa gente. Sto controllando il livello delle batterie e mi sento una mano sulla schiena – vai, che c’è Emilia Parallela – e mi ricordo che devo filmare. Okay. “È un’Emilia parafrasata questa! Parafrasiamo!” urla Giorgio roco (rojo?) al microfono. Ma io, le parafrasi, al liceo, mica le facevo così. E se sei cresciuta col mito di Emilia Paranoica senza aver mai visto dal vivo i CCCP perché all’epoca nemmeno eri venuta al mondo, ti ritrovi a maneggiare un’Emilia che trent’anni dopo è diventata paracula, paralitica, parallela, popolata da gente che

è un’invasione di cicale che ripetono a memoria ogni cagata più banale.

La pioggia si trasforma in

una tempesta, un temporale, tuoni, fulmini, saette e vaffanculo le cicale.

“Come state?” – non c’è male, dai. Ho la lacrima facile, e tu non mi aiuti molto, Giorgio: Messaggi a nessuno è una bella ballata malinconica, piena di amore e di sguardi dritti, di pelle che conosci bene, di sigarette fumate sotto il cielo. Fuochi supplementari, poi, è la ciliegina sulla torta. E intanto piove, piove, piove su Bologna e “piove sui miei pensieri”. Avrei bisogno di un aiuto – ma dove si compra la colla per i cuori rotti? Mandate Bostik, implora Canali, “all’indirizzo in sovraimpressione”. E la pioggia sul finale lascia il posto alla grandine, mentre recupero in corner la mia felpa e mi avvicino al camerino, aspettando il finale. “Non dovevamo fermarci”, canta Canali nel brano che tutti conoscono come Valerio. A me viene da ridere un po’, perché – sì – non dovevate fermarvi, non così a lungo. Voglio dire, non così tanti anni.

E però: fermatevi, Giorgio, Marco, Luca, Steve, se lo scopo è tornare così. Così pieni di cose da dire, di energia, di malinconia, di incazzature, di rabbia gioiosa, di amore graffiante, di bestemmie, di pioggia, di vita.

Quando usciamo ha smesso di piovere, e va benissimo così: tanto, di scarpe nuove, né io né Marco ne abbiamo.

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Fotografie di Marco Olivotto.